domenica 28 novembre 2010

LA DISTRUZIONE DELL’ISTRUZIONE

Semplice guida per portare al collasso il sistema universitario italiano

DALL'ITALIA - Le manifestazioni di questi ultimi giorni, coincidenti con la conclusione dell’iter per l’approvazione in Senato della cosiddetta “riforma Gelmini”, vedono studenti, ricercatori e professori associati protestare contro il disegno di legge. In realtà la protesta è indirizzata verso una serie di provvedimenti posti in atto da questo governo Berlusconi che, essendo diluiti nel tempo, potrebbero apparire sconnessi ed invece, visti nel loro complesso, sembrano delineare una strategia ben precisa di destabilizzazione della Scuola e dell’Università Pubblica.
Procediamo con ordine. I tagli al settore universitario iniziano già negli anni ’90 per porre fine ad un lungo periodo di sprechi che hanno portato a proliferazione di corsi di studio, facoltà, atenei slegati da qualsiasi esigenza pubblica. E’ con questa legislatura, tuttavia, che iniziano a profilarsi politiche che paiono minare direttamente alle fondamenta del sistema universitario: l’atto fondativo di questa strategia è il DL 112 approvato il 25 giugno 2008 (che interviene sulla didattica e la ricerca degli atenei italiani) che, inserito nella “politica dei tagli” inaugurata dal ministro Giulio Tremonti, verrà approvato il 6 Agosto ed il 21 diverrà effettivo: si tratta della famigerata legge 133/08. Forse chi legge l’ha già dimenticato, ma la sua approvazione fu ampiamente contestata dagli studenti e dagli addetti ai lavori. [1] E’ da notare che si tratta di un Decreto Legge che, com’è noto, è un provvedimento che appartiene alla cosiddetta legislazione d’urgenza, non sottoposta all’iter promulgativo delle leggi “tradizionali” (l’attuale governo ne ha largamente fatto uso per evitare il lungo dibattito parlamentare): in realtà è una “riforma mascherata” dagli effetti dirompenti.[2] Il decreto prevede il taglio del Fondo di Funzionamento Ordinario (FFO) per 1500 milioni di euro da diluire dal 2009 al 2013, oltre al blocco sostanziale del turn over: per il 2009 si prevedeva una nuova assunzione per ogni 10 docenti che sarebbero andati in pensione, una su 5 per il 2010 e il 2011, una su 2 per il 2012. Una scelta che, seppure di carattere provvisorio, pare assurda se si considera che, secondo i dati Ocse, in Italia c’è un solo docente per 20,4 studenti, a fronte di uno ogni 16,4 in Inghilterra, 17 in Francia, 12,4 in Germania. La lotta per la sopravvivenza degli Atenei si fa ancora più difficile dopo la Legge 1/2009, in cui viene previsto che per le Università in cui Il rapporto tra spese di personale e FFO superi il 90% vi sia il blocco totale delle assunzioni e del reclutamento: inutile aggiungere che questo comporterebbe la completa paralisi delle attività di didattica e di ricerca. Per fare un esempio, secondo una proiezione della FLC CGIL dell’anno scorso, l’Università di Bari giungerebbe ad un pericoloso 89,1% nel 2011, ma ben più grave sarebbe la soluzione del Politecnico del capoluogo pugliese che arriverebbe al 93,2% sempre dall’anno prossimo. [4] I tagli sono stati confermati anche dal DL 78 (ancora un decreto legge) che rientra nella Manovra Economica approvata il 31 maggio 2010; ma non basta: lo stesso decreto prevede il congelamento dello stipendio percepito nel 2010 e il blocco della contrattazione collettiva nei i prossimi 3 anni, per tutto il personale (comprendendo anche i giovani ricercatori, in questo modo gravemente penalizzati sul futuro della loro carriera).
Tutti questi provvedimenti si inseriscono in un contesto che vede l’Italia investire nella ricerca (ossia nel proprio futuro) soltanto l’1,3% del Pil con quota pubblica pari allo 0,8% (secondo i dati forniti da Mariagrazia Dotoli del coordinamento ricercatori del Politecnico di Bari); secondo i dati Ocse, inoltre, la spesa pubblica annuale per studente è di 9.400 dollari per l’Inghilterra, 10.200 per la Germania, 9.300 per la Francia e di soli 5.400 per l’Italia. In questo quadro, tutt’altro che roseo, interviene la “riforma Gelmini” che, come pare chiaro, non è che l’ultima goccia che fa traboccare il vaso. [4]
La situazione pare dunque davvero drammatica. Se la riforma fosse approvata, l’università italiana sarebbe praticamente destinata al collasso: saremo costretti a ripensare completamente alla nostra idea di “Ateneo”, magari per sostituirla con quella di “Fondazione”, tanto cara al ministro Tremonti, con l’intervento di sponsor privati (chi legge immagini cosa questo possa significare nel nostro Sud…). Se la riforma non dovesse passare (ipotesi comunque abbastanza remota, avendo ottenuto anche l'appoggio di Fli) il mondo universitario si avvierebbe verso un lento declino, una sofferta agonia, in una sorta di selezione darwiniana in cui gli Atenei più “deboli” decadranno uno alla volta (anche qui, chi legge immagini quali saranno i primi a cedere). Non sono ipotesi, ma previsioni concrete a breve termine. Il rettore del Politecnico di Bari, Nicola Costantino, in occasione dell’Assemblea d’Ateneo del 18 ottobre, ha paventato il commissariamento” del Politecnico stesso, dichiarando:
Se il finanziamento pubblico del Politecnico non sarà riportato almeno ai livelli fisiologici di sopravvivenza, proporrò al Consiglio d’Amministrazione ed al Senato Accademico di rimettere i nostri mandati al Ministro, nella serena consapevolezza che nessun commissario ministeriale potrà ridurre la nostra spesa e razionalizzare il nostro bilancio più di quanto l’attuale Amministrazione, con grande spirito di responsabilità e di sacrificio, non abbia già fatto. […] Dobbiamo tutti essere consapevoli che, nell’attuale congiuntura, è in gioco la sopravvivenza stessa del nostro Politecnico, almeno nella sua attuale configurazione. […] Potentati economici e politici hanno espliciti interessi a sacrificare il nostro ruolo di Ateneo d’eccellenza, ma aperto a tutte le classi sociali, a favore di un sistema classista, decisamente più orientato alle Università private ed all’emigrazione obbligata dei nostri studenti nei più ricchi e meglio finanziati atenei settentrionali.”
Oltre a questi gravissimi problemi, si aggiunge anche l’annosa questione dei ricercatori: la categoria dei ricercatori, nata negli anni ’80, nell’ultimo decennio si è fatta carico, aldilà del proprio ruolo, di attività didattica che spetterebbe invece ai professori ordinari e (in misura inferiore) ai professori associati. I motivi che hanno indotto i ricercatori ad accollarsi finora un compito non proprio, sono intuibili: l’amore per la cultura è certamente essenziale ma, a parere di chi scrive, a questo potrebbe essersi aggiunta la forte motivazione di compiacere gli ordinari, per ricavarne speranze di futura carriera accademica. Se i “ricercatori” hanno questo nome, è evidente che dovrebbero occuparsi di “ricerca” e non di didattica: appare strana dunque la disponibilità che, come annuncia il rettore del Politecnico di Bari, questi ultimi avrebbero offerto nell’ “essere disposti a coprire i corsi del secondo semestre, anche modificando gli orari di lavoro”. Se i ricercatori continuassero a rifiutare incarichi aldilà delle proprie competenze, probabilmente sarebbero gli ordinari a protestare per l’impossibilità di coprire un numero spropositato di corsi (chissà che effetto farebbe vedere migliaia di professoroni in giacca e cravatta a tirare uova davanti al Senato?). D’altronde anche i professori associati sarebbero penalizzati da questa situazione che limita fortemente i loro possibili avanzamenti nella carriera accademica: anche in questo caso i professori ordinari sembrano favoriti da questa “riforma”, poiché potrebbero continuare a gestire gli Atenei senza l’intrusione di “nuovi” soggetti. Appare, a questo punto, assurda la dichiarazione del ministro Gelmini che il 26 Novembre esortava gli studenti italiani con questo invito: : “Ragazzi, non fatevi strumentalizzare dai baroni e dai centri sociali”, sottolineando che la protesta avrebbe fatto il gioco dei “baroni”. A parte il surrealismo dell’accostamento tra “baroni” e “centri sociali” (pare di vederlo il professorone che, acconciato di tutto punto, va a fumarsi uno spinello col collettivo, discutendo di anarchia e rivoluzioni), è difficile pensare come questa riforma possa contrastare quei grumi di potere che si addensano intorno a certi professori ordinari. Ne sono decisamente consapevoli coloro che protestano: il rappresentante dei ricercatori presso il consiglio d’amministrazione dell'Ateneo di Genova, Luca Guzzetti, ha affermato “La Gelmini dice che la riforma è contro i baroni, invece li favorisce perché ricercatori e associati spariranno”. [7]






Nessun commento:

Posta un commento